Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo
di Francesco Perfetti - 15/06/2010
Fonte: il giornale [scheda fonte]
Sottoposto a processo di epurazione nel 1944, Giuseppe Ungaretti giustificò i finanziamenti che aveva percepito regolarmente ogni mese dal regime per un totale di 144.000 lire sostenendo che si trattava di «una sovvenzione» che si dava a «persone onorevolissime» affinché «potessero proseguire con regolarità il loro lavoro». Si sarebbe trattato, insomma, a suo parere, di una normalissima «sovvenzione statale» paragonabile a quella concessa a un «agricoltore» per consentirgli di «portare a termine lavori di bonifica» o a uno «scienziato» per permettergli di «proseguire le sue ricerche di laboratorio». Il fatto di averla accettata, pertanto, aveva fatto sì che egli avesse potuto dedicarsi ai suoi studi letterari e alla sua poesia «con qualche continuità».
Le cose, in realtà, stavano diversamente. La concessione di sovvenzioni, fisse o saltuarie, a intellettuali o a riviste e giornali rispondeva a una logica ben precisa: quella di costruire il consenso e favorire la formazione di una intellettualità militante. Un saggio dello storico Giovanni Sedita dal titolo Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo (Le Lettere, pagg. 258, euro 20), in libreria da oggi, ricostruisce, per la prima volta, sulla base di una ricchissima documentazione inedita, la mappa completa dei finanziamenti erogati dal regime al mondo della cultura e illustra anche le modalità che dovevano essere seguite per consentire agli intellettuali di poter accedere alle sovvenzioni.
Queste, infatti, venivano erogate soltanto a seguito di una precisa richiesta formale da parte dell’interessato, probabilmente proprio per evitare che assumessero quel carattere di «sovvenzioni statali» richiamato da Ungaretti nel suo memoriale difensivo. Le elargizioni venivano da un fondo segreto extra-bilancio nel quale confluiva denaro proveniente dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza attraverso stanziamenti «invisibili» che non influivano sul bilancio ordinario del Ministero della Cultura Popolare.
Gli intellettuali, insomma, per poter ottenere queste sovvenzioni erano costretti a mettere in moto un meccanismo che prevedeva il loro personale coinvolgimento e attivava, come osserva Sedita, una «triade» formata dal duce, dal capo della polizia e dal ministro della Cultura popolare: l’istanza del richiedente veniva infatti proposta dal Minculpop a Mussolini che l’autorizzava (o, eventualmente, la rigettava) di proprio insieme al capo della polizia. Il beneficiario, poi, doveva rilasciare quietanza con alcune righe di ringraziamento. Il tutto veniva, infine, archiviato in un fascicolo personale.
Nel corso degli anni Trenta, nell’arco cioè di un decennio, fra il 1932 e il 1943, furono erogati segretamente oltre 600 milioni a 906 intellettuali e 387 giornali, riviste e agenzie di stampa. Gli intellettuali non erano trattati tutti allo stesso modo: duecento di essi ricevevano un compenso fisso mensile che, di fatto, li trasformava in «collaboratori esterni», in una vera e propria «manovalanza intellettuale». Tra questi figurano nomi illustri della letteratura e della poesia: da Sibilla Aleramo a Vincenzo Cardarelli, da Guelfo Civinini a Marcello Gallian, da Alfonso Gatto a Corrado Covoni, da Amalia Guglielminetti a Gianna Mancini, da Tomaso Monicelli ad Ada Negri, da Vasco Pratolini a Rosso di San Secondo, da Fabio Tombari a Giuseppe Ungaretti. Le cifre complessive variano, naturalmente, da persona a persona e anche in funzione della data di ingresso nella categoria dei sovvenzionati fissi. Così, per esempio, a fronte di somme elevate versate alla Aleramo (168.000) o a Tombari (118.500) o a Ungaretti (144.000) si segnano cifre più modeste come quelle versate a Pratolini (6.000). Quest’ultimo riuscì ad avere una sovvenzione fissa di 500 lire (il più piccolo assegno mensile corrisposto dal Minculpop) solo nel giugno 1942 per interessamento personale di Alessandro Pavolini, ma aveva comunque ottenuto altre 5.000 lire di sovvenzioni saltuarie.
Anche fra i giornalisti «sovvenzionati fissi» si trovano nomi di rilievo come Emanuele Bonfiglio, Felice Chilanti, Ivon de Begnac, Ernesto De Marzio, Giulio Evola, Ugo Indrio, Oreste Mosca, Giovanni Preziosi, Stanis Ruinas, Emilio Settimelli, Edgardo Sulis, Ruggero Zangrandi. E quella dei giornalisti, anzi, è la categoria percentualmente «più pagata» dell’universo culturale del regime. Non mancano neppure, nella lista, esponenti dello spettacolo come il regista Enrico Fulchignoni, l’attrice Irma Grammatica, i musicisti Pietro Mascagni e Onesto Murolo. Se si passa, poi, agli elenchi relativi alle sovvenzioni occasionali, si ritrova gran parte dell’intellettualità italiana del tempo, da Goffredo Bellonci a Sem Benelli, da Romano Bilenchi a Vitaliano Brancati, da Achille Campanile a Lucio d’Ambra, da Libero de Libero a Curzio Malaparte, da F. T. Marinetti a Salvatore Quasimodo da Ottone Rosai a Sante Monachesi, da Francesca Bestini a Paola Borboni.
Lo studio dei finanziamenti elargiti dal fascismo agli intellettuali è illuminante non solo per comprendere - come è negli intendimenti dell’autore - il funzionamento della «macchina del consenso», ma anche per capire le biografie individuali e per cercare di spiegare i motivi per i quali molti intellettuali, che nel dopoguerra si sarebbero trovati su posizioni politiche diverse, si lasciarono sedurre dalle sirene del regime. In proposito, uno dei più grandi giornalisti del Novecento, Giovanni Ansaldo, che, dopo essere stato antifascista avrebbe diretto il quotidiano della famiglia Ciano e nel dopoguerra Il Mattino di Napoli, in un gustoso articolo, pubblicato sotto pseudonimo nel marzo 1948, spiegò, cinicamente ma verosmilmente, il rapporto tra Mussolini e gli intellettuali sostenendo che gli artisti hanno sempre avuto nostalgia delle carezze degli uomini di governo. E di Ansaldo - il cui nome non è in alcuna delle liste di percettori di finanziamenti o sovvenzioni - Mussolini disse che era uno dei pochi giornalisti italiani con i quali fosse possibile «discutere di cultura del fascismo» e che, in un panorama affollato di persone che dicono sempre «sì!», quest’uomo - che pure faceva «sforzi eroici per sentirsi fascista» e membro del partito cui era stato iscritto d’autorità da Ciano per affidargli la direzione di Il Telegrafo - era persino capace di dire «no!». Che è un riconoscimento non da poco.