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Adriano Sofri risponde
L’invito del ministro, le ragioni del no, quelli che “è inaccettabile”. Cosa vuol dire esperti di carcere
di Adriano Sofri | 23 Giugno 2015 ore 15:58
Si è sollevato un piccolo chiasso attorno alla mia “nomina” da parte del ministro della Giustizia come “esperto” di carcere, e in particolare di “cultura, istruzione e sport” in carcere, nel contesto della preparazione di materiali utili a migliorare la condizione delle galere italiane. L’antefatto: ricevuto un invito a partecipare a uno di 18 (tanti) “tavoli” a tema, avevo accettato. Non mi tiro indietro quando si tenti di fare qualcosa di utile alla vita quotidiana dei detenuti e della vasta umanità che il carcere travolge. Il mio contributo si era limitato a una conversazione telefonica con un autorevole giurista, e all’adesione a una eventuale riunione futura. Alla quale invece non andrò, scusandomene coi promotori, perché ne ho abbastanza delle fesserie in genere e delle fesserie promozionali in particolare. La polemica è stata innescata dal segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. Costui mi porta uno speciale attaccamento, spiegabilissimo. Tra le troppo rare circostanze in cui i mezzi di informazione lo menzionano, una ingente percentuale proviene, negli ultimi vent’anni, dalla sua premura per me. Questa volta trova – al punto di essere “letteralmente saltato sulla sedia” – “molto grave e inaccettabile” che io sia considerato esperto di carcere. Ora, non c’è dubbio che ci siano esperti più esperti di me: ergastolani senza riparo, che stanno in galera da una vita e sanno di starci fino alla morte; ragazzi arabi denudati e messi in una cella liscia; detenuti gravemente malati e destinati a creparci (io andai lì lì). Eccetera.
Tuttavia anch’io sono passabilmente esperto, avendo conosciuto il carcere più volte – la prima nel 1970, le Nuove di Torino, l’ergastolo di Saluzzo; poi nel 1988, una camera di sicurezza di Milano, il carcere di Bergamo; poi nel 1997 e di nuovo nel 2000, Sollicciano e Pisa, per complessivi nove anni, più altri anni di detenzione a domicilio. Non solo, ma in Italia e fuori non perdo occasione di visitare le prigioni, per quell’antica convinzione che siano uno specchio ideale della civiltà di un paese. Dunque, ammesso che anche il punto di vista di chi ha conosciuto la galera dalla parte di dentro paia di qualche interesse per il progetto di migliorarla, io sono del tutto idoneo a figurare da “esperto”, che non è un titolo di cavaliere. (Sono anche piuttosto esperto di agenti e sindacati di polizia penitenziaria, nella loro variegata qualità). Così ho interpretato l’invito, così l’avrei accettato, salva la verifica della sua utilità. Il titolare del Sappe aggiunge (“ricorrendo all’ironia”, secondo qualche giornale, dotato a sua volta di un raro umorismo) che “meno male che il ministro ci ha risparmiato la nomina del boss mafioso Totò Riina come massimo competente del 41 bis”. Il fatto è che Riina, benché non sia necessariamente “il massimo competente” del 41 bis, ne è certo competente: e troverei del tutto ragionevole che, in una seria indagine sulla realtà del 41 bis, venisse anche lui interpellato in qualità di “competente”. Questo genere di competenza ed esperienza non ha infatti a che fare con l’innocenza, o la colpevolezza, o la gravità della colpevolezza, di chi finisce in carcere.