Mondo
27 novembre 2010
LAVORO
«Quei jeans uccidono
Mettiamoli al bando»
Per un paio di jeans all’ultima moda si può morire. Succede davvero. In Turchia come in Bangladesh, in Messico come in Cambogia, Cina, India, Egitto. A morire non è chi compra a caro prezzo i jeans griffati nelle versioni vintage, logori e invecchiati ad arte come la moda impone. Chi si ammala – e spesso ci rimette la vita – sono gli operai addetti alla sabbiatura dei capi di abbigliamento, colpiti dopo pochi mesi di lavoro da silicosi acuta. La colpa è della silice, contenuta nella sabbia, che viene inalata dai lavoratori.
A lanciare da Istanbul la campagna internazionale contro i «jeans che uccidono», per mettere fuori legge la sabbiatura dei capi di abbigliamento e spingere le aziende a rinunciare a questi modelli, sono la «Clean clothes campaign» (Campagna abiti puliti), il «Solidarity committee of sandblasting labourers» e l’«International labor rights forum». Il lancio arriva a conclusione del Forum internazionale della Campagna abiti puliti che si è tenuto dal 22 novembre a ieri nella capitale della Turchia. Qui la sabbiatura è vietata da marzo 2009 da marzo.
In inglese si chiama «sandblasting». È la sabbiatura, un processo di schiaritura del denim, il cotone blu dei jeans, che avviene «sparando» con compressori la sabbia ad alta pressione. Una tecnica, eseguita manualmente, che permette di ottenere un look consunto del jeans, creando gli effetti speciali richiesti dagli stilisti delle imprese produttrici. Il problema è che la tecnica disperde nell’aria una quantità enorme di silice, una componente presente nella sabbia altamente tossica.
Le decine di organizzazioni internazionali che hanno aderito alla campagna denunciano i gravi rischi per la salute dei lavoratori che utilizzano questa procedura: rapporti medici dimostrano che gli addetti al «sandblasting» possono sviluppare una forma acuta di silicosi, una malattia polmonare non curabile e potenzialmente letale, in soli 6-24 mesi di lavoro. Nel settore minerario, normalmente, ci vogliono 20 anni di incubazione. Su 550 lavoratori della sabbiatura contattati in Turchia dal Comitato di solidarietà, 46 sono morti negli ultimi anni. Stime prudenti indicano che oltre 5.000 persone sono a rischio.
La situazione, poi, è ulteriormente aggravata dalle condizioni di partenza di questi lavoratori: per lo più giovani migranti, spesso donne e bambini, che, oltre ai seri problemi di salute, devono anche affrontare la mancanza di assistenza e di risarcimenti, indispensabili per far fronte alle cure mediche e alle difficoltà economiche derivanti dalla malattia.
Visto il basso costo della sabbia ricca di silice, i jeans sbiancati sono un enorme fonte di profitto per le imprese che li producono, sostiene la Campagna, e che – consapevolmente o inconsapevolmente – hanno messo a rischio la vita dei lavoratori. L’attuale organizzazione della produzione di abiti, costruita su una lunga serie di sub-appalti, porta spesso la lavorazione in Paesi in cui mancano le più elementari condizioni di igiene e sicurezza sul lavoro.
La Campagna abiti puliti sostiene che la pratica è tuttora in uso, anche se vietata, in Turchia. Ed è largamente adoperata in Bangladesh, Messico Cambogia, Cina, Pakistan, Giordania, India, Indonesia, Egitto, Giordania e Siria. Per questo le organizzazioni chiederanno alle imprese dell’abbigliamento (tra cui le italiane Diesel, Replay, Benetton, Armani, D&G, Gucci, Prada, Cavalli, Versace) di abolire la sabbiatura.
Ai governi nazionali sarà chiesto di vietare la tecnica, bloccare le importazioni di jeans sabbiati, garantire assistenza sociale e medica ai lavoratori affetti da silicosi. Un colloquio già avviato: alcune griffe – Gucci, Benetton, Versace, Prada – si sono dette disponibili ad approfondire il problema. Levi-Strauss e Hennes & Mauritz (H&M) hanno già annunciato che cesseranno la vendita di jeans sabbiati. Se non per rispetto della vita, almeno per evitare un pesante danno all’immagine.
Luca Liverani