Roberto Abraham Scaruffi: http://www.misteriditalia.it/ultimora/?p=1508

Friday, 23 December 2011

http://www.misteriditalia.it/ultimora/?p=1508


STRAGE DI PIAZZA FONTANA: INTERVISTA ALLA VEDOVA PINELLI

di Raffaella Fanelli
“Mio marito è la diciottesima vittima della strage di piazza Fontana. Neanche per lui c’è stata giustizia. E anche alla sua famiglia hanno negato la verità. Nonostante siano passati 42 anni da quel 15 dicembre io la verità la cerco ancora. E’ un mio diritto. Ed è un diritto delle mie figlie e dei miei nipoti sapere cosa accadde quella sera in questura, a mio marito”.

Cosa accadde a Giuseppe Pinelli?
“Difficile dirlo. O forse è solo difficile ammetterlo”.
“Ammettere una verità non è mai facile”, continua Licia Rognoni, vedova del ferroviere anarchico precipitato la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 dal quarto piano della questura di Milano. “Quando si parla di Pino ci sono sempre due parole, ferroviere e anarchico. Ma mio marito era altro. Era un uomo che credeva nei suoi ideali. Che si batteva per le sue idee. E che amava la sua famiglia”.
Cosa accadde prima di quella notte?
“Dopo la bomba di piazza Fontana cominciò la caccia agli anarchici… Pino fu fermato nel tardo pomeriggio di quel venerdì 12 dicembre, poche ore dopo la strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Alcuni agenti dell’Ufficio Politico, guidati dal commissario Luigi Calabresi lo raggiunsero al Circolo di via Scaldasole, e lo invitarono ad andare in questura. Qui rimase tre giorni e tre notti. In stato di fermo illegale. Pochi minuti dopo la mezzanotte del 15 dicembre ‘precipitò’ dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. Nessuno mi avvisò. A casa arrivarono i giornalisti, da loro abbiamo saputo. E mia suocera si precipitò in ospedale. Aspettò per ore. La accompagnarono da Pino solo dopo. Quando era già morto”.
Nell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, ad interrogare Pinelli, c’erano quattro sottufficiali di polizia e un ufficiale dei carabinieri. La versione fu subito quella del suicidio. Il questore Marcello Guida convocò addirittura una conferenza stampa quella stessa notte e parlò di “coinvolgimento” di Giuseppe Pinelli nella strage di Piazza Fontana e di “forti indizi” a suo carico. Il brigadiere Giuseppe Caracuta, presente al momento del fatto, parlò di “balzo felino”; Pietro Mucilli di “tuffo oltre la ringhiera”; il brigadiere Vito Panessa si spinse oltre, affermando che nel tentativo di salvare l’anarchico “in mano gli rimase soltanto una scarpa”.
“Ma ai piedi di mio marito le scarpe c’erano. Tutte e due”.
Dopo una prima archiviazione nel maggio del 1970 , per non luogo a procedere per “morte accidentale”, proposta dal pubblico ministero Giovanni Caizzi e accolta dal giudice Antonio Amati, si aprì nell’ottobre del 1970 il processo per diffamazione intentato dal commissario Calabresi contro il quotidiano di “Lotta Continua”.
“Pochi mesi dopo venne decisa anche la riesumazione della salma di Pino, per ulteriori accertamenti, e finalmente, nel 1971, la Procura Generale accolse la mia denuncia, aprendo un’indagine per omicidio”.
L’istruttoria condotta dal Giudice (oggi senatore) Gerardo D’Ambrosio si concluse nell’ottobre del 1975 con il proscioglimento di tutti gli indagati. Pinelli non si era suicidato, ma nemmeno era stato assassinato. Morì, sostenne D’Ambrosio, a causa di un “malore attivo”.
“Secondo D’Ambrosio mio marito si sarebbe sentito male e invece di accasciarsi sul pavimento, sarebbe caduto in avanti scavalcando la ringhiera… Io credo invece che Pino sia stato duramente picchiato. Che si sia sentito male. Forse lo hanno creduto morto, e per questo lo hanno buttato giù dalla finestra”.
Nel corridoio dell’ufficio politico della Questura di Milano quella notte c’era anche un giovane anarchico, Pasquale Valitutti. Aspettava di essere interrogato. Valitutti ha sempre dichiarato di non aver visto uscire nessuno da quella stanza…
“Infatti…neanche il commissario Luigi Calabresi. Ma importa poco se Calabresi fosse o non fosse nella stanza. Fu lui a convocare Pino in questura. Fu lui a trattenerlo per tre giorni. Era il responsabile di quell’ufficio e degli uomini che interrogarono mio marito. Io li ho denunciati tutti. Ma non ho mai avuto un processo. Non ho mai avuto niente. Neanche la verità”.
Dopo tanti anni spera ancora di sapere?
“Immagino solo una soluzione alla tragedia che abbiamo vissuto. Una sola. Che qualcuno prima di dare conto a Dio decida di liberarsi anima e coscienza”.
Fonte: Panorama